Le opinioni sul Giro d’Italia 2025 sono diametralmente opposte. E forse questa spaccatura nasce dal fatto che, secondo i parametri del ciclismo moderno, è stata una corsa combattuta e ricca di suspense. Ma se paragonata ai grandi Giri di un tempo, risulta inevitabilmente meno affascinante. E non per nostalgia, ma per ragioni tecniche che hanno trasformato in modo profondo queste competizioni – e il ciclismo in generale.
Oggi dominano gli scalatori puri: atleti leggerissimi, ottimizzati per la salita. La maglia rosa è sempre più spesso nelle mani di chi ha un rapporto peso/potenza fortemente inclinato verso il “peso”. Simon Yates: 58 kg. Isaac Del Toro: 64 kg. Richard Carapaz: 62 kg. E un corridore come Miguel Indurain, che da 80 kg ha vinto 5 Tour de France e 2 Giri d’Italia, che possibilità avrebbe oggi? Forse nessuna, o comunque molte meno. Perché la cronometro – il terreno dei passisti – è stata praticamente rimossa. Invece dei classici 50-60 km contro il tempo su percorsi pianeggianti, oggi si affrontano crono brevi, al massimo 30-35 km, spesso con salite. Il risultato è una corsa dove si vede all’opera un solo tipo di ciclista: lo scalatore. Una volta c’era la sfida tra stili e caratteristiche opposte: il cronoman guadagnava nei tempi individuali, lo scalatore cercava di ribaltare tutto sulle montagne. Oggi il confronto è tutto interno a una stessa categoria: scalatori veloci, esplosivi, con caratteristiche simili. Un esempio? La lotta tra Carapaz e Del Toro: due corridori affini, con la differenza finale determinata più da dettagli tecnici – una curva affrontata meglio, una discesa più fluida – che da reali distacchi prestazionali.
In più, la conformazione del percorso incide moltissimo. Un grande Giro dovrebbe somigliare, per struttura, a una corsa in linea ben costruita: due grandi salite, tratti mossi, fasi strategiche. Al Giro 2025, invece, il tracciato ha proposto una lunga serie di frazioni mosse, di continui saliscendi, per poi chiudere quasi sempre con un’unica salita significativa. Uno schema che, inevitabilmente, tende a concentrare tutta l’azione nel finale. Ma una salita non basta a fare classifica: serve una vera tappa di montagna, un “tappone”. In questo senso, le cronometro avevano un ruolo importante: permettevano di creare selezione anche dove le montagne non bastavano, dando un senso tattico alla corsa sin dalle prime settimane.
E se invece di due cronometro corte e complicate ci fossero ancora oggi due prove da 50 km su pianura? Probabilmente vedremmo nomi diversi a contendersi la maglia rosa. Corridori in grado di mettere minuti tra sé e gli avversari a cronometro, ma attaccabili in salita: ideali per uno spettacolo a più facce. Pensiamo a Filippo Ganna. O al Van Aert formato 2021: vincente a cronometro, sul Mont Ventoux e persino allo sprint sugli Champs-Élysées. Ma questi atleti nemmeno si pongono il problema: il disegno delle grandi corse a tappe li esclude in partenza. Si concentrano su tappe singole o classiche, senza alcuna ambizione di classifica generale. Perché oggi, semplicemente, la lotta per la vittoria nei grandi Giri è riservata agli scalatori puri. Ed è un peccato.