giro d'italia cadute

Che questo Giro d’Italia potesse essere condizionato dalle cadute era chiaro fin da subito. Lo scrivevo già alla prima tappa, quando in molti davano per scontata l’affermazione finale di Roglic.
Gli incidenti sono arrivati, e non si sono limitati alla tappa tanto discussa di Siena – per alcuni spettacolare, per altri del tutto fuori contesto in una corsa a tappe di tre settimane. Le cadute si verificano anche sull’asfalto classico, non solo sugli sterrati.

E arrivano anche quando si corre davanti. Quindi ha poco senso tirare fuori il solito mantra “meglio stare davanti per evitare rischi”. Perché a volte, anche chi è nelle prime posizioni finisce a terra.
Ci sono però corridori che sembrano avere una marcia in più nella lettura della corsa. Uno su tutti: Del Toro. Sempre attento, sempre davanti. E l’unico a reagire prontamente al movimento di Carapaz a Castelnovo né Monti: un dettaglio che dice molto sul suo livello di concentrazione. Carapaz, non a caso, è tra i pochi a restare in piedi anche nella caotica giornata di Nova Gorica. Essere “presenti” nei momenti decisivi è una delle sue specialità.

Le cadute sono un tema ricorrente, ormai da anni. Ma perché sono così numerose, e così gravi?
Molti atleti indicano nella velocità il principale responsabile, al punto che Van Aert ha ipotizzato una limitazione dei rapporti. Ma è davvero questa l’origine di tutti i problemi?

C’è un altro elemento, forse più importante, che emerge guardando bene le biciclette e i ciclisti di oggi: le posizioni in sella sono diventate sempre più esasperate. Il dislivello tra sella e manubrio, ad esempio, raggiunge spesso valori difficili da sostenere.
Un riferimento concreto: un atleta di 1,80 m, dopo un corretto studio posturale, di norma ha tra i 7 e i 9 cm di differenza tra sella e manubrio. Nel gruppo professionistico, invece, non è raro trovare atleti che superano i 14 o 15 cm.
Non tutti hanno la struttura fisica per sopportare questi numeri. E infatti, in molti casi, non riescono neanche ad utilizzare la presa bassa del manubrio. Come sostiene il professor Bartoli, se non riesci a stare comodo con le mani in presa bassa, la tua posizione ha qualcosa che non va.

Il risultato? La ruota anteriore riceve pochissimo carico. E una ruota scarica è una ruota instabile, pronta a perdere aderenza al minimo errore o cambiamento del fondo stradale.
Per cercare di compensare, si è diffusa la tendenza ad “accorciare” le bici. Ma così facendo, oltre ad alleggerire l’avantreno, si altera la distribuzione del peso in modo ancora più critico. Il risultato finale è una bicicletta difficile da controllare.

A tutto questo si somma un’evoluzione tecnica che ricorda quanto già visto nel settore automobilistico: telai sempre più leggeri e performanti, ma spesso meno solidi, con l’aderenza affidata in gran parte agli pneumatici.
Peccato che, in condizioni di bagnato, le gomme più larghe – tanto di moda – non siano sempre la soluzione migliore.
Nel ciclocross, ad esempio, la sezione massima è fissata a 33 mm. Ma quando il fango è davvero estremo, i meccanici montano gomme più strette, da 30 o 31 mm, perché offrono maggiore precisione.
Nel ciclismo su strada, l’equazione non cambia molto. Se sommiamo: posizioni troppo spinte, ruote anteriori leggere, bici accorciate, gomme con impronta larga e dispersiva… il quadro è chiaro.
Oggi si va fortissimo, ma lo si fa su mezzi pensati esclusivamente per la prestazione, con poco margine in termini di stabilità e controllo, specie quando le condizioni diventano critiche: pioggia, discesa, pavé.

Finché i corridori stessi non prenderanno consapevolezza del problema, le cadute continueranno a decidere classifiche, ribaltare gerarchie e rovinare corse. Anche a prescindere dalla gamba.

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